Manicomio di Maggiano
Itinerari lucchesi
Spetta/Le Redazione
Nel mondo antico, i pazzi erano venerati, perché si pensava che fossero il mezzo con cui gli dei comunicavano con gli uomini. Anche nella civiltà contadina di un tempo questi personaggi un poco "strani" erano, se non venerati, almeno tollerati, perché si diceva che erano così perché..."vedevano la verità"
Mario Tobino - Le libere donne di Maglino, 1953
La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un'altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore.
Nella seconda metà del millesettecento il Senato della Repubblica di Lucca chiese e ottenne dal pontefice Clemente XIV, la soppressione del monastero femminile dei Canonici Lateranensi di Santa Maria, solo a patto che la struttura fosse riutilizzata per il bene pubblico. L'edificio in questione sorge sul colle di Santa Maria delle Grazie in via Frejonaia a Maggiano a pochi chilometri da Lucca e nel 1773 divenne ufficialmente "l'ospedale dei pazzi": il 21 Aprile del 1773 dalle carceri di Lucca furono trasferiti i primi 11 malati. Fu un evento molto importante perchè da quel momento il malato di mente cessò di venir considerato alla stregua di un criminale ma divenne un malato bisognoso di cure ospitato quindi in un ospedale per lui appositamente creato. Arrivando a Maggiano, dalla vallata sottostante guardando verso ovest si nota la parte circolare dell’imponente struttura che ospitava la lavanderia, l’officina, la cucina, i dormitori, i laboratori di musica, di pittura, il teatro e la chiesa. Dopo i primi anni di sola sorveglianza e custodia degli infermi, dalla metà dell’ottocento in poi, grazie alla teoria dello psichiatra francese Philippe Pinel il quale sosteneva che non tutti i malati erano matti, ma che bisognava cercare di capire cosa fossero capaci di fare, le cose cambiarono. Furono insegnati agli internati i lavori manuali, gli uomini si occupavano dei lavori agricoli, mentre alle donne spettavano le pulizie, il riordino, il cucito e la cucina. Ma chi erano i ricoverati? Erano considerati malati gli omosessuali, i transessuali, gli alcolizzati, i bimbi celebrolesi, i senza famiglia, i figli illegittimi, gli eversivi, gli epilettici, le ex prostitute malate, insomma i “diversi” che in qualche modo dovevano sparire dalla società. Avere un matto in famiglia era una vergogna e una volta rinchiuso dentro un manicomio il malato perdeva la propria identità per diventare un numero fino alla sua morte. La struttura a pieno regime ha contenuto anche 1.400 malati ed in tutto, tra infermieri e medici, è arrivata ad ospitare oltre 2.000 persone contemporaneamente. Una vera e propria cittadella quasi indipendente perché quasi tutto si faceva all'interno di quelle mura.
La nostra visita inizia con l'arrivo nel parcheggio dell’edificio. Dopo aver lasciato la macchina entriamo da un cancello e percorriamo una strada che sale. Verso dove? Verso la speranza, la vita, la morte ? Non lo sappiamo. Mille cose ci passano per la mente mentre camminiamo nel perimetro della struttura. L'eco di quelle vite dimenticate, di quelle identità perdute. Ora in questo luogo regna la pace, la serenità, solo il canto degli uccelli rompe il silenzio su questa verde collina. Continuiamo a costeggiare l’imponente struttura fino a raggiungere il piccolo stabile distaccato dal corpo centrale riservato ai bambini e poi ancora l'edificio del ricovero temporaneo usato da scrittori ed artisti che volevano, non sappiamo come, trovare pace e serenità ed, infine, lo stabile delle donne agitate fino ad arrivare alla scalinata che conduce al cortile dove si trova un monumento dedicato ai caduti della prima guerra mondiale. Entriamo e ci ritroviamo dentro un piccolo spazio circolare al centro del quale si nota un pozzo in marmo. Sulla parete di fronte vediamo una fontana in marmo di Carrara e sul lato destro tre porte: la chiesa e le divisioni femminile e maschile. Per prima visitiamo la chiesa. Grazie al fatto che sulla facciata del manicomio faceva bella mostra di sè il simbolo del fascio, il piccolo edificio ecclesiastico fu risparmiato dai rastrellamenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nella parte centrale troviamo un bellissimo altare in marmi policromi con sopra un bellissimo olio su tela raffigurante la Madonna con Bambino e ancora più sopra si trova l’organo in legno. Ai lati due altari altrettanto belli sono sormontati da colonne in marmo nero che sorreggono statue di angeli in marmo bianco. Le volte sopra gli altari sono stuccate e affrescate, nell’incavo dipinto della parte destra si trova una bella acquasantiera in marmo.
Usciti prendiamo la porta con sopra la scritta: Divisione Femminile. Muoviamo i primi passi dentro quell’enorme struttura e arriviamo alla sala delle radiografie con le varie attrezzature. Dopo aver scattato foto continuiamo nel corridoio fino ad arrivare alla stanza dell’arte. Sulle pareti ci sono nomi, frasi e disegni, alcuni apparentemente senza senso per noi savi (presunti), altri invece molto significativi, come un galeone a vele issate con la prua rivolta verso chissà quali terre lontane, oppure due palme a simboleggiare un’oasi felice chissà dove. La finestra ha le sbarre, all’interno della stanza rimangono dei banchetti metallici e dei mobiletti in legno serviti al ricovero per pennelli, barattoli e pitture. I viaggi di evasione al di fuori di queste mura, i sogni colorati ora sono appesi a una parete: ritratti, animali, fiori, piante sono la testimonianza di una genialità folle. Il centro era dotato anche della sala da ballo e della musica. Maggiano ha ospitato il Festival della Musica che si tenne tra il 1960 e il 1970 come attività ludica con lo scopo della riabilitazione psicosociale del malato. I “pazzi” interagivano cantando proprie canzoni ed imitando i cantanti degli anni 60.
Usciamo e percorrendo un corridoio arriviamo alla stanzetta delle attrezzature “curative”. con le attrezzature per le trasfusioni, la macchina per gli elettroshock, gli strumenti di visita, le camice di forza, le cinghie di contenimento e altro ancora. Ma come venivano curati i malati? Paranoici, depressi, catatonici, se di cure possiamo parlare, tutti erano trattati allo stesso modo. Dalla piccola cella di contenimento un locale di due metri per due con solo un materasso, nella quale il malato era quasi dimenticato per giorni e giorni, alle cinghie di contenimento legate ai polsi ed alle caviglie i degenti erano trasferiti nella stanza dei trattamenti shock di varia natura, da quelli termici con docce gelate e poi subito caldissime, a quelli glicemici, agli elettroshock eseguiti quotidianamente senza sedazione e senza valutare né i voltaggi né i tempi. Alle punture di Valium in dosi da tramortire un cavallo e, peggio ancora, all’uso della canfora ed anche con la rottura delle ossa e in fine all’intervento di lobotomia, intervento neurochirurgico di interruzione delle fibre nervose che collegano un lobo cerebrale all'altro. In questa stanza si trovano appese alla parete, dietro una grata, le fototessere dei matti. Non è possibile rimanere indifferenti a tutto ciò. Continuando il giro arriviamo alle camerette dove ancora oggi ci sono i lettini arrugginiti. Sogni e sofferenze ora giacciono silenziosi in quest’atmosfera surreale. Continuando il percorso arriviamo alla grande cucina alimentata dalla fornace a legna posta all’esterno dell’edificio ed ai bagni comuni. La visita si conclude alla casa dei medici ed alle due stanzette del medico–scrittore Mario Tobino che di questo manicomio fu il direttore. Negli anni 50, di colpo nei reparti cessarono i canti e la folle felicità dei malati. Iniziò la somministrazione degli psicofarmaci che rese i “pazzi” automi, togliendo loro, come sostiene il medico Tobino, la loro personalità, il proprio modo di essere. Poi nel 1978 le leggi 180 e 833 portarono progressivamente alla chiusura dei manicomi, Maggiano è stato l’ultimo manicomio d’Italia ad essere chiuso nel 1999. Su quest’ultima dichiarazione del medico-scrittore ci sono scuole di pensiero diverse. Non sta a noi giudicare quale sia quella giusta. Un ringraziamento va all’associazione Mario Tobino per averci fatto conoscere in parte questa pagina triste della nostra storia che non deve essere DIMENTICATA, perché " I pazzi aprono le vie che poi percorrono i savi". (Carlo Dossi)
Mario Tobino - Viareggio 1910 – Agrigento 1991
Ha passato una parte della sua vita tra la Liguria e la Toscana dove è stato iscritto al liceo di Massa. Specializzato in psichiatria lavora in diversi ospedali , Ancona, Gorizia, Merano. Finita la guerra torna dal fronte libico e presta servizio preso l’ospedale psichiatrico di Maggiano, che nei suo libro chiama Magliano. In questo manicomio ha esercitato per oltre 40 anni di cui 20 come direttore ed anche dopo aver raggiunto la pensione ottenne il permesso di continuare a vivere dentro la struttura. Tra le sue opere ricordiamo la più famosa: Le libere donne di Magliano.
Ci piace chiudere questo articolo con due frasi, la prima di una scrittrice e poetessa:
“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.
(Alda Merini)
(Alda Merini)
E l’altra di un nostro poco noto concittadino che forse è stato proprio dentro queste mura e che trovandosi davanti alla porta d’ingresso esclamò: “Fermi tutti, entro o esco”? (Vanelli Primo)
PierBin
Manicomio di Maggiano 31 marzo 2019
Lo scemo del villaggio
Fino alla metà del secolo scorso, non era difficile trovare in ogni borgata isolata o paesino di montagna, lo scemo del villaggio. Gli studiosi di genetica ipotizzano che questo fosse il risultato della consanguineità, che la chiusura al mondo esterno praticata per secoli da questi paesi, aveva favorito. Questi personaggi, spesso non erano affetti da una vera e propria patologia, ma solamente da scarsa intelligenza, o da forme non gravi di disabilità mentale. La loro situazione era aggravata dalla derisione popolare, praticata con ingenua cattiveria soprattutto dai bambini, e dalla solitudine, che spesso li portava a isolarsi socialmente, in condizioni igieniche sanitarie, al limite della sopravvivenza. Nonostante questo, lo scemo del villaggio era tollerato e accettato come elemento inevitabile nella società rurale del tempo, e spesso addirittura aiutato e nutrito da tutta la comunità, in cambio di piccoli lavori o commissioni di poco conto. Alcuni di loro però sono rimasti nella memoria popolare per le loro presunte capacità divinatorie. Personalmente quando ero bambino, ho conosciuto una di queste persone, e posso dire che mentre al tempo anch’io, come gli altri ragazzini lo prendevo in giro con scherzi e lazzi, crescendo ho imparato a rispettarlo, e sono ancora stupito per alcuni avvenimenti che lui aveva predetto, poi puntualmente accaduti, e che ancora oggi mi sembrano incredibili. Questa persona, che a me pareva già anziana, forse a causa della barba e dei capelli sporchi e non curati, com’era sporco e trasandato il suo modo di vestire, abitava in una catapecchia composta di due locali, di cui uno, edibito a ovile. Era amante del vino, e spessissimo era ubriaco, anche perché il vino era di solito la ricompensa per i suoi lavoretti. Aveva quattro o cinque pecore, che tutti i giorni con qualunque tempo, portava al pascolo, chiedendo però sempre il permesso ai proprietari dei terreni. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, ma tutti lo chiamavano “Menega” forse perché questa parola era sempre ricorrente nei suoi discorsi. Per la verità devo dire che alcuni degli abitanti più anziani del borgo, avevano per lui una sorta di rispetto-paura, perché dicevano che a volte, nei suoi discorsi strampalati, infilava qualche “profezia” che puntualmente si avverava. A tal proposito la più nota era quella avvenuta a novembre del 1949. Gli anziani raccontavano che quel giorno era una splendida giornata, il sole ancora caldo, aiutava i contadini che aravano e concimavano i terreni per prepararli alle semine primaverili. In quella situazione, quasi bucolica, videro arrivare Menega che farfugliando con il viso stravolto dalla paura, spingeva le pecore verso l’ovile mentre gridava alla gente, ” scappa, scappa, brutta menega, acqua salagre, tron, via via” (scappa, scappa, brutta cosa, acqua grandine tuoni, via, via.) La gente rideva divertita, ma nella notte un terribile alluvione fece tracimare il Carrione che devastò Carrara, Avenza, e Marina, causando anche delle vittime. Una volta assistetti a una scena che mi sconvolse letteralmente. Me la ricordo bene perché era l’ultimo giorno di scuola. Frequentavo la seconda elementare, e stavo tornando a casa correndo con i miei compagni della borgata, il grembiulino nero messo a mo’ di mantello di Ivanoe, felice perché il tormento scolastico era finito. Arrivato sull’aia, vidi Menega che seduto sullo scalino della porta di casa della vicina, piangeva disperatamente. La vicina, che era sua cugina, uscì, chiedendo cosa avesse, e lui la abbracciò forte e facendosi il segno della croce balbettò” p’rcos t mor?” (perché muori?) La Vangè, impallidì di colpo, e disse che non voleva morire, lo fece sedere sulla panchina di marmo vicino al pozzo, e andò in casa a prendere il fiasco di vino e un bicchiere. Ma Menega stranamente non volle bere, e sempre piangendo si alzò e scappò via. Nella notte la Vangè morì per un attacco di cuore. Qualche anno dopo, successe un fatto molto simile. Eravamo in pieno inverno, e sicuramente era una festa comandata perché noi bambini eravamo a casa da scuola. Menega stava passando sull’aia, con le sue pecore, quando Robè, uno dei miei amici più scalmanati, con la sua fionda colpì sul posteriore una delle pecore, che belando di dolore, partì di gran carriera, seguita da tutte le altre. Noi aspettavamo la reazione di Menega, per ridere, ma quello che fece ci lasciò stupiti. Si girò verso di noi, e dopo essersi segnato, puntò il dito verso Robè, e cominciò a piangere. Noi pensando che piangesse per il gregge disperso, scappammo ridendo, ma non era così. Dopo poco a Robè venne la febbre, e dopo meno di due settimane morì di polmonite. Dopo molti anni, ormai sposato e con casa in altro luogo, venni a sapere che Menega era stato trovato morto nella sua casa, ma stranamente con il vestito di velluto a coste “dalla festa,” disteso sul suo povero giaciglio, come se, prevedendo la sua morte, la stesse aspettando.
Mario Volpi
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